Quanto leggiamo ogni anno?

Il titolo è eloquente: quanti di noi sono lettori? Quale è la percentuale di persone che leggono almeno un libro l’anno?

Qualche articolo fa ci siamo soffermati a guardare i dati circa la fruizione della cultura da parte degli italiani: tra le abitudini sondate abbiamo visto figurare anche la lettura.

Il dato, però, non era molto rassicurante: il 60% degli italiani afferma di non leggere nemmeno un libro l’anno.

L’ISTAT ha proposto un nuovo studio che sonda il settore dell’editoria e le abitudini di lettura. Vediamo insieme se ci sono dati differenti e più rassicuranti di quelli che abbiamo analizzato precedentemente.

Qualche numero

Con quasi 87 mila opere pubblicate, l’editoria ha tenuto abbastanza bene nel 2020, registrando una lieve flessione (-2,6%) rispetto all’anno precedente. Diciamo quindi che ha retto bene, soprattutto al confronto con altri settori della cultura e dell’intrattenimento, come ad esempio cinema e teatri, che hanno invece registrato una flessione piuttosto importante.

Le misure restrittive che hanno interessato librerie, tenendole chiuse nei primi mesi della pandemia, hanno contribuito ad una quota dell’invenduto leggermente superiore a quella del 2019 (+ 2,7%). Quasi il 25% degli editori, infatti, dichiara giacenza e reso per oltre la metà dei titoli pubblicati, con una quota maggiore per i piccoli e medi editori, più contenuta per i grandi.

La tiratura, dunque il numero di copie stampate, ha subito un decremento consistente, pari al 7,2% rispetto al 2019. Il genere maggiormente colpito è quello dei titoli scolastici (-28,2%), mentre un’interessante crescita ha riguardato le opere per ragazzi e bambini (+16,5%).

Per quel che riguarda i contenuti editoriali, dominano la scena i testi letterari moderni, parliamo di romanzi, libri gialli, di avventura e libri di poesia. In particolare, romanzi e racconti costituiscono insieme il 22,5% dei titoli e il 26% delle copie stampate.

E il prezzo? Rimane abbastanza stabile, e si posizione sul livello di circa 20€ a copertina.

Libri sì, ma in digitale

Quasi il 10% degli editori ha affermato di aver pubblicato libri esclusivamente in formato e-book, per un totale di 2.113 opere (+ 3,7% rispetto al 2019).

Si tratta di un dato rilevante!

Nonostante, il fatturato derivante dalle versioni digitali, non sia ancora molto importante (10% del totale, circa), è molto interessante leggere questa nuova spinta dell’editoria.

Nel 2020 si è arricchita infatti la disponibilità di libri in formato digitale: quasi il 48% delle opere pubblicate su carta è stata resa disponibile anche in formato e-book. Rispetto al 2019, la versione digitale è particolarmente diffusa per i libri pubblicati da micro e piccoli editori, mentre registra un calo per le edizioni scolastiche, che restano comunque le opere con la quota più elevata in versione digitale su quella cartacea.

Ancora, la nuova tendenza è del tutto visibile anche dall’ampliamento dell’offerta digitale da parte degli editori: audiolibri, produzione di podcast e sviluppo di piattaforme per l’educazione digitale sono oggi un must per essere all’avanguardia e competitivi sul mercato. Sono quasi 6 milioni infatti coloro che hanno scelto di leggere su e-book o formati digitali

Ma chi sono i lettori?

Aumenta leggermente il numero dei lettori (dai 6 anni in su) rispetto al 2019 (+1,4%).

Chi legge di più?

I giovani (tra gli 11 e i 14 anni) rappresentano la quota più alta di lettori. Le donne leggono di più degli uomini (46,4% contro 39,3%) con la percentuale è in crescita rispetto al 2019. Interessante notare che il divario percentuale tra uomini e donne mostra un trend persistente a partire dal 1988. Le ragazze tra gli 11 e i 24 anni sono quelle che leggono di più, scendendo poi al di sotto della media nazionale dopo i 60 anni di età.

L’interesse verso la lettura cresce all’aumentare del grado di istruzione, e sembra essere più forte al Nord rispetto alle regioni del Centro e del Mezzogiorno. Le isole invece mostrano un trend molto diverso: in Sardegna oltre il 40% dei residenti ha letto almeno un libro l’anno, mentre in Sicilia questa percentuale non raggiunge il 30.

Sono favoriti gli abitanti dei grandi centri metropolitani, probabilmente collegato ad una maggiore offerta di biblioteche e librerie, mentre la quota di lettori scende nei centri con meno di 2 mila abitanti.

La pandemia ha inoltre favorito la lettura, che si è posizionata al terzo posto (dopo tv e video-chiamate con parenti ed amici) come forma di intrattenimento durante la prima fase di lockdown.

Infine, un ultimo dato. Il report afferma che il 41% della popolazione con più di 6 anni ha letto almeno un libro nell’ultimo anno: la buona notizia è che non abbiamo smentito il dato che abbiamo comunicato nell’articolo precedente.

 

 

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Redazione 10 Febbraio 2022 0 Comments
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Imprese italiane ed intensità digitale: i dati

Come sono messe le imprese italiane in termini di intensità digitale? Vediamo insieme qualche numero e percentuale.

Come sempre faremo un viaggio nei dati e dalla nostra cassetta degli attrezzi prendiamo il report dell’ISTAT su imprese e ICT.

La transizione digitale è stata una delle frasi chiave del 2021: la diffusione della pandemia e in generale la sempre più elevata tecnologizzazione dei servizi ci hanno messo davanti l’evidenza. La digitalizzazione è urgente.

Vediamo allora come abbiamo chiuso il 2021 e quali sono gli aspetti su cui possiamo ancora migliore.

Anzitutto, la nota metodologica!

Come abbiamo sempre detto attraverso questi nostri articoli settimanali, i dati sono fondamentali. Sì, fin qui nulla di nuovo. Ma lo è ancora di più, al fine del loro utilizzo e soprattutto della loro comprensione, capire come sono stati raccolti e quali informazioni forniscono (e quindi cosa lasciano fuori!).

Quindi, come regola generale ricordiamoci sempre di controllare che dati stiamo guardando e come sono sintetizzati.

Poniamoci delle domande: cosa vogliono rappresentare questi dati? A che domande vogliono rispondere?

Una volta che abbiamo in mente questo sarà più facile farne una lettura, anche critica. Capire cosa non stiamo considerando e anche uscire dalla logica delle “classifiche”.

Bene, ora andiamo al punto

Il rapporto ISTAT offre molte comparazioni del nostro Paese con altri paesi Europei e con la media raggiunta dall’EU nell’ultimo anno.

Questi confronti si basano sui dati pubblicati all’interno del Digital Economy and Society Index (DESI) preparato dalla Commissione Europea, con l’obiettivo di monitorare i progressi dei Paesi membri sugli obiettivi di digitalizzazione e della transizione tecnologica.

E allora a che punto sono le nostre imprese con la digitalizzazione?

Il 60% delle imprese ha almeno un livello base di intensità digitale, ci posizioniamo 4 punti percentuali al di sopra della media EU (56%).

Ma questo cosa significa? Come si misura l’intensità digitale? 

Stiamo parlando di un indicatore sintetico che misura l’utilizzo da parte delle imprese di 12 diverse tecnologie digitali. Qualche esempio: la presenza di addetti specialisti in ICT in impresa, analisi di big data, utilizzo di robot e stampanti digitali. Il valore dell’indice varia da 1 a 12, l’impresa guadagna un punto per ciascuna area di interesse ed individua quattro intensità digitali in funzione del numero di attività svolte dall’impresa: fino a 3 attività (livello molto basso), da 4 a 6 (livello basso), da 7 a 9 (livello alto), da 10 a 12 (livello molto alto).

Quindi, in base a questo indicatore possiamo desumere che il 60% (che occupa il 78% degli addetti) delle nostre imprese ha un livello base di intensità digitale (almeno 4 di questi indicatori, soprattutto per le piccole e medie imprese). La quota invece delle grandi raggiunge il suo massimo intorno alle otto attività, per poi registrare una diminuzione. Sintomo che la dimensione dell’azienda conta nell’adozione di nuove tecnologie.

Siamo invece ancora ben lontani dal diventare imprese ad alta intensità tecnologica: solo 6 imprese su 100 utilizzano sistemi di intelligenza artificiale.

Anche la vendita online sembra essere ancora ben lontana dall’essere ampiamente diffusa, nel 2020 sono infatti il 18% le imprese con almeno 10 addetti che hanno effettuato vendite online. Nonostante la pandemia, e la spinta quindi dei consumatori ad acquistare di più online, siamo ancora al di sotto della media UE (23%). Miglioreremo entro la fine dell’anno?

Quindi…

Come sempre questa carrellata di dati ci è utile sia per conoscere lo stato delle nostre imprese circa l’aspetto della digitalizzazione, che ci sta particolarmente a cuore, ma soprattutto per capire come leggere il dato. Ad esempio ci basta sapere che il 60% delle imprese vanta almeno un’intensità digitale di base? Forse no, se non sappiamo cosa significa, come è misurata e quale è la distanza invece per raggiungere un più alto livello (cioè quanto ci manca per salire un po’ più su!).

 

 

 

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Redazione 28 Gennaio 2022 0 Comments
Friends watching movie in open air cinema

Cultura e tempo libero: come spendiamo il nostro tempo?

Continuiamo il nostro viaggio nelle abitudini degli italiani, questa volta ci occupiamo di cultura e tempo libero.

Quale è stato l’uso del tempo libero degli italiani nel 2020?

Lo capiremo leggendo i dati forniti dall’ISTAT nell’importante pubblicazione annuale “Annuario Statistico Italiano 2021“. Si tratta di una pubblicazione vasta, composta da 24 capitoli, che mira ad offrire una sintesi conoscitiva e un ritratto complessivo della nostra società.

Ogni capitolo è dedicato ad un differente aspetto del nostro Paese. Tutti i temi sono comunque trattati dalla statistica ufficiale, attraverso tabelle e grafici.

Vediamo se il ritratto dell’Italia nel 2020 ci fornisce anche alcuni interessanti spunti di riflessione sulla fruizione della cultura durante la pandemia di Covid-19.

Meno visite ai musei

Complici il lockdown nazionale cominciato a marzo e le restrizioni nei mesi autunnali del 2020, i musei hanno registrato solo 13 milioni di visitatori. Si tratta di un numero molto basso, soprattutto se comparato ai 45 milioni di visitatori registrati nel 2019, un calo del 75%.

Lo studio considera tre diverse categorie di siti statali: musei, monumenti e aree archeologiche statali, archivi di stato e biblioteche.

Guardando alle macro-regioni, il Centro Italia ha registrato il più elevato numero di visitatori, in termini assoluti per tutte le tipologie di luoghi analizzati. Musei e archivi statali sono stati i più visitati in centro Italia anche considerando il numero medio di visitatori per sito. Complici Roma e Firenze, due importanti poli di attrazione per ciò che riguarda siti archeologici e complessi museali. La Toscana inoltre ha il più alto numero di archivi statali sul suo territorio, dunque il numero di visitatori è indubbiamente influenzato dalla maggiore disponibilità di siti.

Per quel che riguarda invece le biblioteche statali, il Mezzogiorno ha registrato il maggior numero medio di visite considerando i soli 8 istituti statali presenti sul suo territorio.

Le biblioteche pubbliche e private sul territorio italiano sono 11.934. La distribuzione territoriale è a favore della Lombardia, con 1.892 spazi sul suo territorio, mentre nel Mezzogiorno ne sono presenti 3.332.

Cinema: la forma di intrattenimento preferita dagli italiani

Il cinema è la forma di intrattenimento maggiormente gradita dagli italiani. Oltre il 45% infatti è andato al cinema almeno una volta nel 2020 (in calo rispetto al 2019 (48,5%).

Il cinema interessa soprattutto i giovani: quasi il 78% dei ragazzi con età tra i 18 e 19 anni si è recato al cinema almeno una volta nel 2020 e il 67% dei bambini tra i 6 e 10 anni.

Le ragazze sembrano frequentare maggiormente il cinema rispetto ai loro coetanei maschi (fascia di età fino ai 24 anni), registrando oltre l’80% rispetto al 72% dei ragazzi.

I residenti del Centro e del Nord Italia frequentano maggiormente il cinema, rispetto agli abitanti del Mezzogiorno (47% contro il 42%), inoltre la fruizione del cinema come luogo di intrattenimento è più diffusa in comuni di maggiore dimensione, quindi dove presumibilmente l’offerta è più ampia.

E la non partecipazione ad eventi culturali?

Come prevedibile la pandemia e le misure restrittive intraprese per limitare il contagio, hanno fortemente limitato gli italiani nell’accesso ad eventi culturali.

Oltre il 23% (+ 3% rispetto al 2019) degli italiani con età superiore ai 6 anni non ha usufruito di alcun evento culturale per tutto l’anno.

In particolare, dai 55 anni l’accesso ai servizi culturali eguaglia la media nazionale, per poi cominciare la discesa progressiva fino al raggiungimento dei 75 anni. Fascia di età che vede il picco minimo.

Guardando al genere invece, le donne accedono meno ai servizi culturali: il 25,3% contro il il 20,7% degli uomini dichiara di non partecipare ad eventi culturali.

Anche la variabile territoriale sembra influire sulle scelte di consumo di eventi culturali: il tasso di inattività è piuttosto elevato nel Mezzogiorno (32,8%) rispetto al 16,4% (la metà) degli inattivi che risiedono nella fascia territoriale del Nord-est.

Inoltre usufruiscono meno dei servizi culturali coloro che risiedono in comuni con meno di 2 mila abitanti (27,8%), la minore offerta di servizi dunque sembra determinare anche una minore fruizione degli stessi.

Infine, oltre il 70% degli italiani non frequenta musei, l’82% non ha mai frequentato il teatro nell’ultimo anno e il 53% non è mai andato al cinema e poco meno del 60% degli italiani non legge nemmeno un libro l’anno.

In questo viaggio abbiamo scoperto quali sono gli eventi culturali maggiormente graditi dagli italiani e quali invece sembrano piacere meno!

Prendiamo spunto!

I dati, dunque, ci hanno aiutato a scoprire le abitudini di consumo e le modalità di fruizione del tempo libero e dei servizi culturali degli italiani. Magari il report può fornirci degli spunti anche per il nostro tempo libero, perché no?

 

 

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Redazione 18 Gennaio 2022 0 Comments

Cosa ci dicono i dati soggettivi?

Quanto sono importanti i dati soggettivi?

Ultimamente ci siamo soffermati sulle questioni metodologiche e abbiamo riflettuto insieme su cosa ci raccontano i dati e più in generale su cosa significhi fare (e quali implicazioni ha) un’analisi basata sui dati.

Oggi continuiamo a raccogliere i numerosi spunti provenienti dalla 14esima edizione della Conferenza Nazionale di statistica e parliamo della natura dei dati.

Dati oggettivi vs. dati soggettivi

I dati oggettivi sono quei dati che esistono indipendentemente dall’osservatore, ossia sono osservabili anche da altri. Il dato soggettivo invece dipende strettamente dall’osservatore e non è interosservabile.

Il dato soggettivo è quello attraverso il quale esprimiamo un giudizio, ad esempio se un certo libro ci è piaciuto o meno. Oppure sono quei dati che ci produciamo quando esprimiamo una nostra percezione.

Sono due categorie di dati utilissime, e come ci racconta il Prof. Becchetti dell’ Università di Roma Tor Vergata, sono entrambi utili al fine di conoscere un fenomeno.

Il dato soggettivo è ovviamente soggetto ad un bias, ossia è un dato relativo. La percezione che abbiamo  e quindi il dato che produciamo appartiene soltanto a noi, non sta raccontando un fenomeno in maniera oggettiva.

(Ma non abbiamo detto che nemmeno i dati oggettivi sono veramente oggettivi?)

Tuttavia, utilizzare i dati soggettivi ci permette di cogliere delle conseguenze reali di aspetti oggettivi, sono delle vere e proprie sentinelle.

Unire quindi dati oggettivi a percezioni individuali arricchisce indubbiamente la sfera con cui guardiamo ad un fenomeno.

Ma quanto è distante la percezione pubblica dalla realtà?

Secondo uno studio IPSOS del 2014, l’Italia è il paese che mostra maggiore distanza, tra i 14 paesi oggetto dello studio, tra la realtà dei fenomeni e la loro percezione.

Un esempio?

Guardiamo alla distanza tra disoccupazione reale e dato percepito. Gli italiani intervistati hanno risposto (in media) che il tasso di disoccupazione fosse al 40%. Il dato reale? Circa 4 volte più basso.

Questa discrepanza non è spuria da conseguenze, ma ha a che vedere con come gli italiani percepiscono il paese.

Questo aspetto è cruciale e ci ricorda quanto i policy-makers debbano tenere conto anche degli indicatori soggettivi per prendere delle decisioni, per informare e soprattutto per dare la giusta visibilità ai dati oggettivi.

Tornando dunque all’esempio della disoccupazione, sarebbe opportuno che le persone vengano informate correttamente sul dato oggettivo in quanto al momento hanno una percezione “sbagliata” della realtà.

Non significa che i dati soggettivi non abbiamo valore, anzi in questo caso ci restituiscono l’idea degli aspetti mancanti della comunicazione pubblica.

Qualche riflessione finale

Dati oggettivi e dati soggettivi sono due facce della stessa medaglia. Completano le informazioni e contribuiscono a mettere in luce  degli aspetti che soltanto guardando ad una tipologia di dato ci perderemmo.

Sono entrambi cruciali.

Tuttavia, è fondamentale tenere a mente che il dato oggettivo, quantomeno per la descrizione di alcuni fenomeni, può funzionare da guida.

La statistica ufficiale ha dunque un ruolo centrale nel dibattito e nella comunicazione pubblica, nel fornirci sia i dati oggettivi che quelli soggettivi, e soprattutto nel porsi delle domande sul perché in alcune occasioni esiste una forte discrepanza tra questi due.

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Redazione 17 Dicembre 2021 0 Comments
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La comunicazione pubblica e i dati

I dati possono essere fondamentali per la diffusione di informazioni puntuali e quindi per una buona ed efficace comunicazione pubblica. La scorsa settimana ci siamo interrogati sull’esaustività dei dati e sulla completezza delle informazioni.

Abbiamo detto che i dati non sono neutri e che deve essere tenuto in considerazione cosa stiamo rappresentando con questi e soprattutto cosa stiamo lasciando fuori.

Certamente, nell’epoca data-driven i dati, la loro raccolta e diffusione hanno un ruolo fondamentale.

Ce lo ricorda anche la quattordicesima edizione della Conferenza Nazionale di statistica, conclusasi da pochi giorni, spazio di incontro e condivisione tra i protagonisti del sistema statistico nazionale.

Il tema della conferenza

La conferenza ha come obiettivo quello di mettere a fuoco le prospettive di sviluppo e il ruolo della statistica ufficiale, avendo in mente soprattutto il tema della ripartenza, a cui la conferenza è stata dedicata.

A latere, ovviamente sono stati discussi anche i temi oggi dominanti nel dibattito pubblico:

  • La sostenibilità;
  • L’inclusione;
  • Il ruolo della statistica come base imprescindibile per la definizione delle politiche pubbliche;
  • Il monitoraggio della loro efficacia.

Andiamo a vedere nel dettaglio il ruolo dell’informazione pubblica e della comunicazione dei dati e delle informazioni, grazie all’intervento “Comunicazione pubblica, fra esigenze informative e infodemia” nell’ambito della conferenza.

I dati per combattere l’infodemia

Ma anzitutto che cos’è l’infodemia? Ci aiuta a rispondere il vocabolario Treccani con la definizione puntuale: “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili“.

Ed eccoci qui al grande tema sul piatto: l’accuratezza delle informazioni, la verifica delle fonti e l’oggettività dei dati.

Partendo dall’assunto che l’accordo sociale su alcuni temi scientifici sembra costituire la base per evitare una frammentazione sociale e civile, Marco Ferrazzoli, Capo Ufficio Stampa del Centro Nazionale delle ricerche, precisa che il dato racconta una verità “provvisoria”.

I dati raccontano una verità che è tale fino a prova contraria, ribadendo dunque la crucialità delle informazioni puntuali, ma anche la necessità di guardare alla complessità del dato.

Il ruolo della comunicazione

In questo senso la comunicazione, al pari della statistica, assume un ruolo fondamentale.

Nell’ultimo periodo, in particolare con la pandemia, abbiamo visto come figure professionali diverse dal ruolo di comunicatore, siano diventati i veri protagonisti della comunicazione.

I media hanno infatti lasciato grande spazio ai virologi, ai medici e ricercatori, tutte figure assolutamente autorevoli in ambito medico e scientifico. Tuttavia c’è da domandarsi se siano anche comunicatori efficaci.

Indubbiamente anche su questo aspetto è possibile lavorare e migliorarsi: la comunicazione è ampliamente mutata rispetto al passato. I giornali cartacei, più statici, hanno lasciato lo spazio ad una dimensione digitale che prevede anche una interazione più immediata con il pubblico.

Esistono oggi nuovi strumenti di comunicazione, stiamo parlando del data journalism e delle tecniche di storytelling della pubblica amministrazione. Siamo in una nuova fase di comunicazione, fatta di maggiore dinamismo ed interattività con il pubblico.

Ma allora i dati sono utili?

La risposta è affermativa. Nessuna smentita sulla crucialità dei dati, ma ancora una sottolineatura sull’importanza di comprenderne i limiti. E soprattutto di utilizzare in maniera efficace e più nuova il ruolo della comunicazione.

Questa infatti, può rafforzare il valore dei dati. Come ha affermato Ferrazzoli, non si combatte l’infodemia a suon di numeri, ma se ne evita il rischio proprio con le informazioni complete e quindi con la comunicazione efficace.

La comunicazione pubblica, insieme alla statistica, ha assunto dunque un ruolo di leva per la buona informazione e per contribuire a costruire una cittadinanza consapevole.

 

 

 

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Redazione 9 Dicembre 2021 0 Comments
People aging process flat icons set

La nostra demografia: uno sguardo al 2020

Curiosi di scoprire i nuovi trend demografici del nostro Paese? Ci aiuta anche questa volta il Rapporto Annuale elaborato dall’ISTAT.

Il capitolo 2 infatti ci parla dell’impatto della pandemia sulla nostra demografia: nascite, morti, matrimoni e flussi migratori.

La scorsa settimana avevamo già visto gli effetti del Covid-19 sul capitale umano, soffermandoci in particolare sull’istruzione e sull’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani.

Vediamo cosa ci dice il report!

(altro…)

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Redazione 21 Luglio 2021 0 Comments

L’importanza del Capitale Umano

Il 9 Luglio è stato pubblicato il Rapporto Annuale 2021 redatto dall’Istat. La ventinovesima edizione del Rapporto analizza la situazione emersa dall’emergenza sanitaria e ne considera gli effetti sulla società e sull’economia italiana.

In questa occasione analizzeremo insieme i risultati proposti dal terzo capitolo, che si concentra su capitale umano e disuguaglianze.

Proveremo insieme a vedere quali sono i fattori di rischio e quali le fasce di età più esposte e vulnerabili e soprattutto, faremo un confronto con il resto d’Europa. Il 2020, sappiamo essere stato un anno particolare e più complesso, proveremo dunque a tenerne conto ed evidenziarne gli effetti.

Partenza!

Istruzione: la prima nota dolente

Siamo meno istruiti rispetto alla media Europea. Solo il 20% degli italiani con età compresa tra i 25 e i 64 anni ha un titolo universitario, contro il 32,5% (dato medio) dei Paesi UE27.

Se ci focalizziamo sui giovani, vediamo che la situazione non cambia affatto. Quasi il 28% dei giovani italiani nella fascia di età 30-34 ha conseguito una laurea, contro il 40% dei Paesi EU.  Le donne hanno una migliore probabilità di laurearsi rispetto agli uomini, con oltre il 34% contro il 21% dei loro pari di genere maschile.

Nell’anno 2020 è il 13,1 la percentuale dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente gli studi. In particolare la pandemia in questo caso ha sortito un doppio effetto: il tasso di occupazione è diminuito, mentre il numero di ragazzi con abbandono scolastico precoce che intende entrare nel mondo del lavoro è aumentato. Sono oltre 2 milioni (il 23% del totale) i giovani tra i 15 e i 29 anni non inseriti né in un percorso scolastico e formativo e neppure impegnati in una attività lavorativa

E come andata durante la pandemia?

Nei primi mesi di implementazione della didattica a distanza, cioè tra aprile e giugno 2020, ben l’8% degli iscritti alle scuole primarie e secondarie non ha partecipato alle video-lezioni. La percentuale aumenta e passa al 23% se consideriamo gli studenti con disabilità.

Negli ultimi anni le capacità di inclusione di alunni con disabilità è fortemente aumentata, colmando un gap importante. Tuttavia la pandemia ha riportato la partecipazione scolastica ai livelli di quattro anni fa,  vanificando di fatto i miglioramenti ottenuti.

Le famiglie hanno dichiarato che la didattica a distanza per 4 alunni su 10 al di sotto dei 14 anni di età ha comportato un aumento dei disturbi alimentari e del sonno, abbassamento del rendimento scolastico ed irritabilità e nervosismo.

Sicuramente la pandemia ha avuto degli effetti molto forti sui giovani ed ha colpito in maniera più incisiva le regioni del Mezzogiorno.

Qualche conclusione

L’istruzione ha un effetto protettivo: possedere un titolo di studio più elevato aumenta la partecipazione e la probabilità di essere occupati. Questo effetto sembra essere particolarmente rilevante per le donne. Anche se durante la pandemia questo effetto è venuto meno, essendo state di più  queste ultime a soffrire l’aumento della disoccupazione.

Il Mezzogiorno è la macro-regione con il più alto tasso di disoccupazione, anche tra laureati. Nonostante ciò, l’effetto positivo dell’istruzione si rende evidente: il divario nei tassi di occupazione tra laureati e diplomati nella fascia di età 25-64 anni è ampio ed in crescita rispetto al 2008. Raddoppia per gli uomini, passando da 4,6 a 8,9% e da 19,6 a 23,7 punti per le donne.

La pandemia ha acuito il divario e la vulnerabilità che la ripresa moderata cominciata nel 2014 non aveva ancora risolto del tutto. Il calo dell’occupazione della fascia di età 15-64 è stato relativamente più forte per i giovani, per le donne e gli stranieri.

La pandemia ha indubbiamente avuto degli effetti importanti sia sull’istruzione sia sul mercato del lavoro.

Analizzare i dati e quindi proporre dei confronti dell’Italia prima e dopo la pandemia e dell’Italia rispetto agli altri Paesi EU può essere utile a fornire la misura di ciò che possiamo migliorare.

 

 

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Redazione 14 Luglio 2021 0 Comments

La mobilità in Italia: per lavoro o studio?

La diffusione della pandemia e le misure che i Governi hanno dovuto intraprendere per limitarne gli effetti hanno avuto come effetto quello di limitare la nostra mobilità.

Il lockdown nazionale inizialmente e poi le zone rosse su base regionale e territoriale sono state misure volte a ridurre il più possibile gli spostamenti. Da qui la necessità di virare le nostre attività quotidiane come quelle di lavoro e studio dalla dimensione in presenza a quella totalmente online.

Gli spostamenti si sono ridotti in maniera significativa, ma come erano i dati prima dell’avvento di queste misure?

Il censimento permanente dell’Istat sugli spostamenti della popolazione residente in Italia ci aiuta a definire un quadro chiaro di come e quanto ci spostavamo prima della pandemia.

Ma cosa è il censimento permanente?

Il censimento permanente è una raccolta dati campionaria e continuativa, a cadenza annuale e triennale. ISTAT ha scelto di implementare il censimento permanente. Questo è utile sia a favorire il processo di modernizzazione sia per attuare una strategia coerente con le politiche di sviluppo europee. Il censimento permanente riguarda tutte le aree tematiche di cui si occupa il nostro Istituto Nazionale di Statistica (ad esempio la popolazione, le imprese, le istituzioni pubbliche e l’agricoltura).

Disporre di censimenti permanenti è un gran vantaggio: ci permette infatti di avere dei dati aggiornati, raccolte di tipo campionario che però sono estensibili e dunque rappresentative dell’intera popolazione italiana.

Beh, ma stavamo parlando degli spostamenti prima della diffusione della pandemia, torniamo là.

Nel 2019 le persone che hanno effettuato spostamenti quotidiani per recarsi sul luogo di lavoro o di studio sono state oltre 30 milioni. Dunque, il 50,7% della popolazione residente in Italia si sposta giornalmente, in aumento rispetto al 2011 (48,6%).

Di queste, oltre 20 milioni si spostano per motivi di lavoro, corrispondente al 67,9% delle persone, mentre quasi 10 milioni (il 32,1%) per motivi di studio. Si spostano più uomini che donne, per entrambe le ragioni.

Il 57,5% degli spostamenti è avvento nel comune presso cui si abita, mentre il restante 42,5% ha avuto come destinazione finale un comune diverso rispetto a quello di dimora abituale.

Quale regione si sposta di più?

La percentuale di spostamenti è abbastanza eterogenea per geografia. Le regioni in cui ci si sposta di più per motivi di lavoro corrispondono alla macro area del Nord Italia, quelle regioni con il tasso di occupazione più elevato. Nelle regioni del Mezzogiorno sono più rilevanti gli spostamenti verso il luogo di studio. Tuttavia Roma, appartenente al Centro Italia, risulta la città con la percentuale maggiore di spostamenti dovuti proprio allo studio (18%). Mentre Bologna detiene il primato per spostamenti dovuti al lavoro (40%).

Ma perché è così importante conoscere i dati?

Conoscere con precisione l’andamento degli spostamenti della popolazione sul territorio italiano permette di attuare delle politiche pubbliche adeguate. I dati servono proprio a questo, conoscere il territorio e quindi intervenire e servirlo in maniera adeguata.

Sapere ad esempio che a Roma c’è una grossa fetta di popolazione che si sposta per ragioni di studio, presumibilmente restando nello stesso comune di appartenenza, permette di gestire la mobilità e l’organizzazione del trasporto pubblico rispondendo proprio a questa esigenza.

Questo è il potere dei dati e della loro analisi!

 

 

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Redazione 22 Giugno 2021 0 Comments
beach vacations image

Vacanze Italiane

Mese di giugno e tempo di vacanze italiane o almeno di una tentata pianificazione.

A proposito, anche noi ci siamo presi un piccolo periodo di pausa, ma siamo tornati operativi!

Quali sono le tendenze dei nostri concittadini? Riusciremo tutti a concederci qualche giorno di vacanza? E con quale modalità?

Quale modo migliore per scoprire le intenzioni degli italiani per l’estate 2021 se non leggere il rapporto Istat dedicato al tema.

Il nostro Istituto Nazionale di Statistica ha condotto infatti una indagine ad hoc, in collaborazione con il Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili, per scoprire le intenzioni degli italiani di effettuare vacanze nel periodo giugno – settembre di quest’anno.

Vediamo insieme qualche risultato!

Vacanze italiane: qualche dato

Il 22% degli intervistati è sicuro di poter trascorrere qualche giorno in vacanza, contro il 33,5% che invece afferma con certezza che non ne avrà modo.

Una larghissima fetta per gli “indecisi”: il 27,8% pensa che probabilmente andrà in vacanza, mentre il 16,3% probabilmente non riuscirà ad andare.

Interessante analizzare la distribuzione geografica dei dati: in Nord Italia c’è una maggiore certezza di andare in vacanza (30,9%) rispetto alle altre macro-regioni, mentre il Mezzogiorno (40,6%) registra la percentuale più alta di coloro che sono già da ora sicuri di non andare in vacanza.

Guardando invece alla ripartizione per fascia di età, vediamo che quella compresa tra i 18 e i 29 anni è la più certa di andare in vacanza, mentre quella dei più anziani (over 65) è la più certa di non poter concedersi giorni di vacanza.

Ma quali sono i motivi alla base di queste scelte?

Le difficoltà economiche risultano essere la principale motivazione (32,7%) per cui gli italiani non potranno andare in vacanza. Più marcata la percentuale al Mezzogiorno, rispetto alle altre aree. La mancata disponibilità economica sembra colpire in maniera più marcata le fasce di età 30-49 e 50-64 anni.

Il 15% dei rispondenti ha invece dichiarato di non andare in vacanza per timori legati al Covid-19. Interessante che questo dato è assolutamente omogeneo per tutte le regioni d’Italia, non vi è dunque una netta distinzione territoriale.

Italia o Estero?

L’Italia è la meta di destinazione preferita dagli italiani, infatti solo il 6,2% dei rispondenti pensa di andare all’estero. La maggioranza degli italiani prevede comunque di cambiare regione (il 63,6%) contro il 33,3% che invece rimarrà nella regione di residenza.

Inoltre, gli italiani sembrano preferire andare in vacanza utilizzando il proprio mezzo di trasporto personale. Una predilezione per le vacanze in casa per la fascia dei giovani (18-29) e degli anziani (65+), mentre gli adulti 30-64 preferiscono la sistemazione in hotel.

Per quanto concerne la durata, la maggioranza degli italiani afferma di pianificare una vacanza di circa 2 settimane o meno.

Il Covid-19 ha condizionato le nostre scelte?

Risposta secca: no! Il 32,1% degli italiani che ha risposto all’indagine ISTAT afferma che avrebbe scelto lo stesso tipo di vacanza anche in assenza dell’emergenza sanitaria. Sommando le percentuali di risposta di coloro che ne sono certi e coloro che pensano con molta probabilità che non ne sarebbero stati influenzati siamo al 63,9%. Una percentuale molto elevata, soprattutto in confronto al 13% degli italiani che ha invece avuto un condizionamento dal Covid-19.

La scelta del luogo di vacanza sembra aver condizionato di più gli italiani. Il 48,6% (ottenuto sommando le risposte “Molto” e “Abbastanza” dell’indagine) ha dichiarato di essere stato condizionato dall’emergenza sanitaria nella scelta del luogo.

Ottimismo per quanto riguarda la sicurezza della nostra estate: il 51,3% afferma che il 2021 sia più sicuro del 2020. Sarà l’effetto dei vaccini?

Abbiamo visto insieme una panoramica di quelle che sono le intenzioni estive degli italiani.

E voi riuscirete a fare qualche giorno di vacanza? E dove andrete?

Aspettiamo le vostre vacanze!

 

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Redazione 16 Giugno 2021 0 Comments

Cosa pensiamo della nostra qualità della vita?

Che opinione hanno gli italiani circa la propria qualità della vita?

Ce ne occuperemo proprio in questo articolo, in occasione dell’uscita del rapporto ISTAT su Benessere Equo e Sostenibile (BES).

Il BES nasce proprio con l’obiettivo di misurare il benessere della società, andando oltre gli indicatori di tipo economico, come ad esempio il PIL. Nella società infatti contano molti altri aspetti, ci riferiamo ad esempio alla salute, all’istruzione, alla fiducia che nutriamo verso le istituzioni e nelle relazioni sociali.

Il nostro Istituto Superiore di Statistica ha scelto dunque di redigere annualmente questo rapporto, fornendoci qualche nuovo insights rispetto ai più classici indicatori economici.

Oggi concentreremo la nostra attenzione sulla valutazione e percezione del benessere soggettivo degli italiani.

Sarà interessante conoscerne i risvolti dopo un anno di pandemia.

Come percepiamo la qualità della nostra vita?

Gli italiani sembrano non aver peggiorato la percezione circa la qualità della propria vita nel 2020 rispetto agli anni precedenti.

Quasi il 45% della popolazione infatti valuta positivamente la propria vita, attribuendole un punteggio tra 8 e 10 in termini di soddisfazione.

Il BES dell’anno scorso ci consente, a differenza di quello del 2020, di fare un confronto anche con i Paesi EU. L’indagine EU-Silc condotta a livello europeo nel 2018 mostra che l’Italia si trova in una delle posizioni più basse circa la soddisfazione di vita. Ci classifichiamo dunque al di sotto della media europea, ma registriamo tuttavia un netto miglioramento rispetto al 2013.

Trend in crescita dunque, che non si è arrestato con la pandemia, addirittura è anche in leggero aumento la percentuale di coloro che si ritengono molto soddisfatti della propria vita (43.2% nel 2019).

Uno sguardo alla geografia e ai dati demografici…

Le regioni che hanno registrato un significativo calo della soddisfazione di vita rispetto al 2019 sono state Piemonte, Umbria ed Abruzzo.

Per quanto riguarda le fasce di età, invece, si registra un miglioramento per le persone nella fascia tra i 35 e i 54 anni, che sembrano essere più soddisfatti della loro vita oggi che nel 2019.

La fascia d’età dei più soddisfatti è quella che va dai 14 ai 19 anni, mentre la più bassa è per le persone con più di 75 anni di età. Dati consolidati e confermati rispetto al 2019.

Guardiamo al futuro con ottimismo?

Certamente l’incertezza circa il futuro si fa sentire, lo vediamo dagli indicatori che si riferiscono ai prossimi 5 anni.

È diminuita infatti la percentuale di persone che ritengono che la propria situazione migliorerà nel futuro prossimo, passando dal 30.1% del 2019 al 28.9% di quest’anno.

Le regioni più pessimiste sono Toscana, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte. Ciascuna di queste ha registrato un peggioramento della percezione rispetto al 2019. Il Molise al contrario registra un significativo calo nella quota dei pessimisti, passando dal 13% a poco più del 9%.

E quali sono le fasce di età che temono di più il futuro?

La classe tra i 20 e i 24 anni, è in assoluto la più ottimista. Ben 2 giovai su 3 hanno espresso un giudizio positivo circa le loro prospettive future.

Per le altre fasce di età si registra una relazione inversa tra ottimismo ed età. Con l’aumentare di quest’ultima infatti sembra scendere l’ottimismo verso il futuro, ed in effetti la classe d’età meno ottimista è quella degli over 75.

Un significativo calo dell’ottimismo rispetto al 2019 si registra per le persone tra i 35 e i 44 anni. Risultano infatti essere il 2% in meno coloro che ritengono che la loro situazione nei prossimi 5 anni migliorerà.

Bene, abbiamo fatto un giro tra le percezioni degli italiani circa la qualità della propria vita.

È interessante e soprattutto ottimistico vedere che la pandemia non ha intaccato del tutto la percezione della nostra qualità della vita. E voi, come state? Che voto dareste alla qualità della vostra vita oggi?

Per comprendere a pieno gli effetti della pandemia sarà necessario tuttavia aspettare i prossimi dati.

Dunque aspettiamo il prossimo BES!

 

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Redazione 4 Maggio 2021 0 Comments