Formazione su RPA con IWS Campus
L’anno scorso, proprio di questi tempi, ci siamo occupati dei dati circa il benessere e la qualità della nostra vita.
Lo abbiamo fatto attraverso il BES, il rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile pubblicato dall’ISTAT. Quest’anno ci sembra interessante dare un’occhiata ai nuovi dati proposti per le stesse aree cui ci siamo interessati l’anno scorso e fare qualche confronto.
Secondo voi il nostro benessere soggettivo (usando la terminologia proposta dal rapporto) degli italiani è migliorato in questo ultimo anno?
Andiamo subito a vedere!
Buone notizie! Il trend è in crescita dal 2019: quest’anno, complessivamente il 46% degli intervistati si dichiara essere pienamente soddisfatto della propria vita (ossia 46 persone su 100 intervistati hanno attribuito alla soddisfazione della propria vita un punteggio superiore ad 8).
Nel 2020 eravamo quasi al 45% e nel 2019 vedevamo la percentuale inferiore di qualche punto, al 43,2%.
Il risultato di questo anno è indubbiamente molto positivo, tenendo anche in considerazione le difficoltà di questi ultimi anni.
A livello locale, chiaramente ci sono delle divergenze nei punteggi. La regione con il livello più basso di soddisfazione è la Puglia, con solo il 39.5% degli intervistati che attribuiscono punteggio superiore agli 8 punti, mentre il territorio con la maggiore soddisfazione è la provincia autonoma di Bolzano che tocca quota 63%.
Il Nord-Est si conferma, come il 2020, essere il territorio con la maggiore percentuale di persone che si ritengono molto soddisfatte. A seguire, ci sono Nord-Ovest e Centro Italia, mentre il fanalino di coda è il Sud Italia con il 42.2%. La fascia di età delle persone più soddisfatte dalla vita è quella dei più giovani, tra i 14 e i 19 anni.
L’ISTAT ha fornito delle percentuali anche per quel che riguarda la percezione del nostro tempo libero. In questo caso si assiste ad un vero e proprio crollo rispetto all’anno precedente. La percentuale di soddisfazione del tempo libero, infatti, scende di 12,6 punti percentuale, attestandosi al 56.6%. Il crollo riguarda tutte le fasce di età, ma con una incidenza maggiore per le donne tra i 14 e i 19 anni.
In questo caso la percentuale di soddisfazione italiana cresce al 56.6%, con il Nord-Est capofila (59.1%) seguito a stretto giro dal Centro (57.9%). Anche questo indicatore vede la regione autonoma di Bolzano attestarsi al primo posto, mentre la Campania con un valore percentuale vicino al 52% occupa l’ultima posizione.
Il 2021 registra la percentuale più alta di ottimisti: quasi il 32% degli intervistati crede che la propria situazione personale migliori nei prossimi 5 anni. Interessante notare anche che il 2021 ha la percentuale più bassa di coloro che sono pessimisti riguardo i risvolti dei prossimi 5 anni.
Particolarmente interessante notare la relazione che il rapporto BES ritrova tra soddisfazione per la propria vita e condizione di salute mentale nei giovani. Incrociando infatti i dati dell’insoddisfazione con quelli di salute mentale, si nota che il 60% dei ragazzi non soddisfatti della propria vita mostra anche un basso benessere psicologico. Dunque, la percentuale totale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale raddoppia nel 2021, rispetto al 2019, raggiungendo quota 6.2%. Si tratta di circa 220 mila giovani che hanno sicuramente subito un impatto dalla pandemia. Un dato molto importante che dovrebbe informare chi disegnerà le politiche pubbliche per l’immediato futuro.
Nel prossimo articolo ci dedicheremo anche ad una novità introdotta dall’ISTAT. Curiosi?
Vi siete mai chiesti come lavora davvero un’azienda? Come nasce e si sviluppa un progetto?
Parliamo sempre di dati, di cosa significhi prendere decisioni data-driven, di quanto i dati siano fondamentali in azienda, ma ancor di più di quanto è cruciale la capacità di leggerli.
Ma noi di IWS Consulting come mettiamo in pratica questi valori?
Vi raccontiamo come nasce un’idea e come si trasforma in una forte sinergia tra collaboratori. Vi vogliamo raccontare un nostro progetto: come nasce, come si sviluppa e cresce nel tempo e come non si conclude.
Non ci siamo sbagliati! Abbiamo proprio scritto che non si conclude.
Quindi vi abbiamo già anticipato una parte fondamentale del nostro processo: i nostri partner troveranno sempre la porta aperta.
Vogliamo essere disponibili, migliorare e crescere insieme, e quindi no, i progetti non si concludono. Piuttosto evolvono.
La scorsa settimana abbiamo lanciato un post che anticipasse il racconto un progetto che ci sta particolarmente a cuore.
L’idea è nata da un’esigenza piuttosto semplice: colmare una mancanza di dati. Un importante gruppo farmaceutico si è accorto infatti che in Italia non ci sono molti dati circa lo stato dei pazienti e l’evoluzione dell’epatite C.
L’organizzazione mondiale della sanità stima che ci siano nel mondo circa 71 milioni di persone affette da epatite C cronica, maggiormente distribuite nella regione del mediterraneo centrale e dell’Europa.
Le stime più recenti, ci informano che in Italia ci sono circa 200 mila persone attualmente in trattamento per epatite C con farmaci anti-virali.
Ma effettivamente mancano dati aggiornati ed ufficiali, per una mancanza di screening adeguati che rendano possibili diagnosi puntuali e quindi cure efficienti.
Qui è entrato in gioco il team Analytics di IWS Consulting. Si tratta di un progetto sfidante e soprattutto guidato da una ottima motivazione: migliorare le stime in campo per mirare a migliorare il servizio di cura al cittadino.
Una volta chiara la domanda di ricerca e quindi l’obiettivo da raggiungere ci siamo rimboccati le maniche!
Anzitutto ci siamo formati ed informati. Il primo step è sempre leggere tutto il possibile sul tema, vedere quali sono i dati a disposizione, quali le fonti, a quando risale l’ultimo aggiornamento e soprattutto quali metodi di raccolta dati sono stati attuati.
In secondo luogo, con i dati a disposizione e dopo aver effettuato una bella e corposa rassegna della letteratura scientifica in merito, abbiamo disegnato ed implementato un modello matematico-probabilistico che stimasse la popolazione, asintomatica e sintomatica, affetta da epatite C.
E per fare sì che le stime fossero puntuali e specifiche abbiamo tenuto conto di numerosi fattori. Il modello infatti stima il numero delle persone affette da epatite C in Italia, tenendo conto di numerose variabili. Qualche esempio? L’età della popolazione, la distribuzione degli affetti nelle varie regioni italiane, la mobilità interna e verso l’estero delle persone, differenziando i pazienti anche per lo stato di cronicità della malattia e per le vie di trasmissione.
In conclusione, abbiamo stimato un modello dettagliato che offrisse un quadro più realistico possibile dell’epatite C in Italia.
L’obiettivo finale di questo studio, oltre ad avere in generale un quadro d’insieme più chiaro dell’evoluzione dell’epatite C, è quello di formare ed informare gli operatori sanitari sul territorio.
I dati che abbiamo stimato (sempre, ricordiamoci a partire da altri dati esistenti, modelli e letteratura scientifica!!) sono stati trasferiti su un software di visualizzazione interattiva, per permettere una fruizione facile ed intuitiva agli operatori sul campo.
Si tratta di un lavoro importante, che ha avuto ed ha tuttora delle ricadute reali sul benessere delle persone e dei cittadini e per questo non si conclude mai. Si perfeziona! Siamo quindi felici di migliorarci e crescere insieme ai nostri partner, con la volontà di soddisfare i loro bisogni.
La collaborazione scientifica e umana tra gruppi di lavoro e professionisti con formazioni molto diverse tra loro ha dato vita ad un progetto importante, che ha degli effetti concreti in campo medico sanitario.
E questo è il vero valore aggiunto del nostro lavoro!
Come hai scelto il percorso di studi da intraprendere?
Hai prediletto le materie che più destavano la tua curiosità, oppure la scelta è ricaduta sulla facilità di trovare un impiego in futuro?
Lo studio proposto da AlmaLaurea ci offre un insieme di dati e di infografiche utili a capire come i ragazzi hanno scelto gli studi da intraprendere e ci fornisce qualche piccolo indizio per ragionare sui condizionamenti iniziali a queste scelte.
Pronti? Via!
La domanda che ormai abbiamo imparato a porci, sempre, prima di iniziare qualunque tipo di valutazione è proprio quella relativa alla fonte dei dati e come questi siano composti.
L’obiettivo di questo rapporto è quello di informare i policy-makers e gli stake-holders sullo stato dell’occupazione dei laureati a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo, nonché fornire una fotografia dello stato attuale (la demografia) dei laureati in Italia nel 2020.
Per rispondere dunque alle domande che la ricerca si pone, è necessario preparare un campione composto da unità differenti.
Abbiamo quindi i dati per:
Le donne rappresentano la quota maggiore dei laureati in Italia conseguendo quasi il 60% sul totale dei titoli di studio nel 2020. Interessante che il processo di partecipazione delle donne agli studi universitari sia partito negli anni ’70 e abbia raggiunto la parità (per poi invertire il trend) nell’anno scolastico 1991/92.
I dati mostrano un aspetto molto interessante circa l’istruzione: le donne laureate provengono da contesti socio-economici più difficili.
Sono infatti in percentuale inferiore rispetto ai loro pari, le donne che studiano con almeno un genitore laureato e soprattutto tendono ad ereditare meno il titolo conseguito dai genitori, soprattutto per ciò che riguarda la libera professione. Il 42.5% degli uomini (contro il 31% delle donne) infatti intraprende lo stesso percorso di studio del proprio genitore.
Inoltre, le donne sembrano performare meglio anche durante il percorso: il 61.4% delle donne (contro il 52.1% dei loro pari uomini) intraprende un tirocinio curricolare durante gli studi e il 60,2% si laurea in corso, rispetto al 55.7% degli uomini.
I dati ci suggeriscono che gli uomini sono maggiormente favoriti rispetto alla situazione occupazionale sia nel breve che nel lungo periodo.
Gli uomini rappresentano rispettivamente il 72 e il 72.4% degli occupati con laurea di primo e di secondo livello, rispetto al 67.6 e 64.5% delle donne.
Questa differenza si registra anche dal punto di vista retributivo. Gli uomini infatti registrano dal 12 al 16% in più delle loro pari donne, rispettivamente con la laurea di primo e di secondo livello.
Come al solito, abbiamo fatto una bella carrellata di dati che ci da informazioni sui laureati nel 2020 e ci informa sulla condizione occupazionale post-laurea. Ci manca scoprire ed indagare il perché ad esempio, seppure le donne sembrano ottenere maggiori successi durante la carriera universitaria, poi hanno una vita professionale meno proficua.
Quindi la solita questione: i dati sono sempre esaustivi?
Vi siete mai chiesti quali sono quei dati che le applicazioni digitali non riescono a conteggiare?
Cioè quelle metriche che ogni giorno non riusciamo a visualizzare.
Al NewYorker sì, e ne è uscito un articolo davvero divertente sulla rubrica More Humor.
Ogni giorno infatti, grazie ai dati raccolti dalle applicazioni web, siamo consapevoli di quanti passi abbiamo fatto, quante calorie abbiamo bruciato oppure la quantità delle ore impiegate davanti al computer.
Grazie all’intelligenza artificiale abbiamo la possibilità di impostare alcune metriche per calcolare semplici indicatori di performance della nostra vita quotidiana.
Le variabili da conteggiare sono molteplici. I KPI (gli indicatori di performance che ci aiutano a determinare quanto siamo vicini al raggiungimento di un obiettivo strategico), quindi le metriche che scegliamo di utilizzare per misurare le nostre performance quotidiane, che siano sul lavoro oppure sull’attività fisica, possono essere davvero molte.
Alcune applicazioni web ci aiutano addirittura a tracciare i tempi che dedichiamo a ciascuna singola task di un progetto di lavoro oppure di un’attività personale. Sapere se impieghiamo un’ora o 5 a completare un determinato compito giornaliero ci supporta nella pianificazione della giornata.
Quindi, al solito, questi dati, il tracciamento di queste metriche sembrano essere molto utili. Ma ci raccontano veramente tutto?
Di seguito alcuni esempi proposti nell’articolo “Metriche di cui sono grato il mio telefono non tenga traccia”. Mai nome dell’articolo fu più azzeccato.
Come ci sentiremmo se ogni giorno ricevessimo una notifica sul costo orario della palestra calcolato in base alle ore che davvero frequentiamo?
Oppure, i km percorsi nelle famose “scarpe di qualcun altro”. La metrica per tutte le volte in cui ci siamo immedesimati in una situazione non nostra e perché no, l’abbiamo anche giudicata.
E sì, l’articolo ne propone molte altre.
Il punto però è un altro!
Tutti questi esempi divertenti ci forniscono lo spunto di riflessione per molto altro.
In questo blog ci occupiamo di dati, e quello che ci interessa è certamente celebrarne l’utilità ma anche capirne i limiti. E perché no, sviluppare un approccio critico.
Non sempre le metriche che impostiamo sui nostri dispositivi elettronici riescono a catturare davvero tutto quello che riguarda la nostra vita.
Se sappiamo che un giorno siamo stati 5 ore davanti al pc, oppure abbiamo impiegato 30 minuti per leggere e comprendere 5 pagine, abbiamo tutte le informazioni complete per sapere se questa performance è ripetibile?
Oppure se si è trattato di un pomeriggio davvero produttivo?
Le metriche non tengono conto infatti di molte altre variabili, che pure intervengono nello svolgimento di questi compiti.
Non sanno infatti se eravamo concentrati, se il nostro umore era buono oppure se c’era qualcosa che ci ha fatto essere più disattenti.
E quindi no, le ore spese per raggiungere un certo obiettivo non sembrano raccontarci poi molto del successo. Ciò di cui tenere conto sono le decisioni e le riflessioni che riusciamo a fare durante quelle ore.
In questo, la famosa citazione di Joseph Conrad che dice:
“come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”
sembra calzare proprio a pennello.
La metrica giusta a volte non si misura.
Il titolo è eloquente: quanti di noi sono lettori? Quale è la percentuale di persone che leggono almeno un libro l’anno?
Qualche articolo fa ci siamo soffermati a guardare i dati circa la fruizione della cultura da parte degli italiani: tra le abitudini sondate abbiamo visto figurare anche la lettura.
Il dato, però, non era molto rassicurante: il 60% degli italiani afferma di non leggere nemmeno un libro l’anno.
L’ISTAT ha proposto un nuovo studio che sonda il settore dell’editoria e le abitudini di lettura. Vediamo insieme se ci sono dati differenti e più rassicuranti di quelli che abbiamo analizzato precedentemente.
Con quasi 87 mila opere pubblicate, l’editoria ha tenuto abbastanza bene nel 2020, registrando una lieve flessione (-2,6%) rispetto all’anno precedente. Diciamo quindi che ha retto bene, soprattutto al confronto con altri settori della cultura e dell’intrattenimento, come ad esempio cinema e teatri, che hanno invece registrato una flessione piuttosto importante.
Le misure restrittive che hanno interessato librerie, tenendole chiuse nei primi mesi della pandemia, hanno contribuito ad una quota dell’invenduto leggermente superiore a quella del 2019 (+ 2,7%). Quasi il 25% degli editori, infatti, dichiara giacenza e reso per oltre la metà dei titoli pubblicati, con una quota maggiore per i piccoli e medi editori, più contenuta per i grandi.
La tiratura, dunque il numero di copie stampate, ha subito un decremento consistente, pari al 7,2% rispetto al 2019. Il genere maggiormente colpito è quello dei titoli scolastici (-28,2%), mentre un’interessante crescita ha riguardato le opere per ragazzi e bambini (+16,5%).
Per quel che riguarda i contenuti editoriali, dominano la scena i testi letterari moderni, parliamo di romanzi, libri gialli, di avventura e libri di poesia. In particolare, romanzi e racconti costituiscono insieme il 22,5% dei titoli e il 26% delle copie stampate.
E il prezzo? Rimane abbastanza stabile, e si posizione sul livello di circa 20€ a copertina.
Quasi il 10% degli editori ha affermato di aver pubblicato libri esclusivamente in formato e-book, per un totale di 2.113 opere (+ 3,7% rispetto al 2019).
Si tratta di un dato rilevante!
Nonostante, il fatturato derivante dalle versioni digitali, non sia ancora molto importante (10% del totale, circa), è molto interessante leggere questa nuova spinta dell’editoria.
Nel 2020 si è arricchita infatti la disponibilità di libri in formato digitale: quasi il 48% delle opere pubblicate su carta è stata resa disponibile anche in formato e-book. Rispetto al 2019, la versione digitale è particolarmente diffusa per i libri pubblicati da micro e piccoli editori, mentre registra un calo per le edizioni scolastiche, che restano comunque le opere con la quota più elevata in versione digitale su quella cartacea.
Ancora, la nuova tendenza è del tutto visibile anche dall’ampliamento dell’offerta digitale da parte degli editori: audiolibri, produzione di podcast e sviluppo di piattaforme per l’educazione digitale sono oggi un must per essere all’avanguardia e competitivi sul mercato. Sono quasi 6 milioni infatti coloro che hanno scelto di leggere su e-book o formati digitali
Aumenta leggermente il numero dei lettori (dai 6 anni in su) rispetto al 2019 (+1,4%).
Chi legge di più?
I giovani (tra gli 11 e i 14 anni) rappresentano la quota più alta di lettori. Le donne leggono di più degli uomini (46,4% contro 39,3%) con la percentuale è in crescita rispetto al 2019. Interessante notare che il divario percentuale tra uomini e donne mostra un trend persistente a partire dal 1988. Le ragazze tra gli 11 e i 24 anni sono quelle che leggono di più, scendendo poi al di sotto della media nazionale dopo i 60 anni di età.
L’interesse verso la lettura cresce all’aumentare del grado di istruzione, e sembra essere più forte al Nord rispetto alle regioni del Centro e del Mezzogiorno. Le isole invece mostrano un trend molto diverso: in Sardegna oltre il 40% dei residenti ha letto almeno un libro l’anno, mentre in Sicilia questa percentuale non raggiunge il 30.
Sono favoriti gli abitanti dei grandi centri metropolitani, probabilmente collegato ad una maggiore offerta di biblioteche e librerie, mentre la quota di lettori scende nei centri con meno di 2 mila abitanti.
La pandemia ha inoltre favorito la lettura, che si è posizionata al terzo posto (dopo tv e video-chiamate con parenti ed amici) come forma di intrattenimento durante la prima fase di lockdown.
Infine, un ultimo dato. Il report afferma che il 41% della popolazione con più di 6 anni ha letto almeno un libro nell’ultimo anno: la buona notizia è che non abbiamo smentito il dato che abbiamo comunicato nell’articolo precedente.
E se vi dicessimo che servono più dati disaggregati che tengano conto del genere per permettere un monitoraggio efficace delle politiche pubbliche?
Immaginiamo che rispondereste in coro: “niente di nuovo sotto al sole”!
Dovreste essere infatti abituati al nostro mantra sull’importanza dei dati, su quanto sia fondamentale soprattutto che siano inclusivi e che parlino a tutti e per tutti.
Il Think Tank Period muove i suoi passi proprio a partire da questa stessa riflessione e in collaborazione con la regione Emilia Romagna, a fine Novembre 2021, ha organizzato un convegno per richiedere dati disaggregati per genere al fine di monitorare l’efficacia del PNRR.
L’Italia, secondo il Gender Equality Index 2021, si colloca al quattordicesimo posto nella classifica dei 27 paesi dell’Unione Europea. Lo score complessivo, visto anche il posizionamento, è al di sotto della media Europea.
Abbiamo collezionato un punteggio scarso per quel che riguarda la posizione lavorativa: l’accesso al lavoro delle donne misurato tramite l’equivalenza in full-time (così da tenere conto della larga quota di donne che utilizzano il lavoro part-time) è del 31%, contro il 52% degli uomini e contro il 41% delle donne della media EU.
Altro aspetto interessante, il punteggio dedicato alla violenza non è stato compilato per l’Italia, così come per nessun paese. Indovinate il motivo.
Non ci sono i dati che ne permettano la comparazione tra i paesi dell’Unione Europea.
Come è possibile che su un tema così importante e urgente non ci siano dati sistematici ed organizzati che ci aiutino a tracciare la situazione in Europa.
Ed eccoci quindi arrivati al vivo della questione. I dati servono a fotografare lo stato delle cose, e servono per aiutarci a tracciare delle politiche pubbliche adeguate.
Il PNNR, a cui ha prestato attenzione il convegno “DATI PER CONTARE. Statistiche e indicatori di genere per un PNRR equo” rappresenta una grande occasione per colmare il divario di genere multidimensionale che esiste in Italia.
Eppure gli interventi dedicati alle donne rappresentano solo l’1.6% del totale, il 18.5% invece riguarda misure che potrebbero avere effetti positivi indiretti sulla riduzione del divario di genere. Infine, la restante parte ha la possibilità di incidere e migliorare la vita delle donne solo in base al tipo di intervento che verrà disegnato.
Quindi, se l’effetto positivo degli investimenti dipende da come sono disegnate le politiche pubbliche per l’attuazione degli stessi. E se per disegnare le politiche pubbliche abbiamo bisogno dei dati. Va da sé che senza dati disaggregati per genere sarà più difficile pensare ad un framework che tenga conto delle donne.
Per questo è fondamentale l’attività di advocacy per costruire statistiche di genere, raccogliere e rendere disponibili dati che includano le donne.
Solo così sarà possibile creare spazi di confronto tra istituzioni e società civile per favorire il monitoraggio degli investimenti (inclusivi!) del PNRR.
Come sempre, i dati non costituiscono la panacea per tutti i mali, ma possono aiutare a tracciare il quadro di un fenomeno. Se sono inclusivi e tengono conto davvero di tutto, lo fanno meglio e possono essere degli strumenti cruciali per indirizzare i policy-makers.
Come sono messe le imprese italiane in termini di intensità digitale? Vediamo insieme qualche numero e percentuale.
Come sempre faremo un viaggio nei dati e dalla nostra cassetta degli attrezzi prendiamo il report dell’ISTAT su imprese e ICT.
La transizione digitale è stata una delle frasi chiave del 2021: la diffusione della pandemia e in generale la sempre più elevata tecnologizzazione dei servizi ci hanno messo davanti l’evidenza. La digitalizzazione è urgente.
Vediamo allora come abbiamo chiuso il 2021 e quali sono gli aspetti su cui possiamo ancora migliore.
Come abbiamo sempre detto attraverso questi nostri articoli settimanali, i dati sono fondamentali. Sì, fin qui nulla di nuovo. Ma lo è ancora di più, al fine del loro utilizzo e soprattutto della loro comprensione, capire come sono stati raccolti e quali informazioni forniscono (e quindi cosa lasciano fuori!).
Quindi, come regola generale ricordiamoci sempre di controllare che dati stiamo guardando e come sono sintetizzati.
Poniamoci delle domande: cosa vogliono rappresentare questi dati? A che domande vogliono rispondere?
Una volta che abbiamo in mente questo sarà più facile farne una lettura, anche critica. Capire cosa non stiamo considerando e anche uscire dalla logica delle “classifiche”.
Il rapporto ISTAT offre molte comparazioni del nostro Paese con altri paesi Europei e con la media raggiunta dall’EU nell’ultimo anno.
Questi confronti si basano sui dati pubblicati all’interno del Digital Economy and Society Index (DESI) preparato dalla Commissione Europea, con l’obiettivo di monitorare i progressi dei Paesi membri sugli obiettivi di digitalizzazione e della transizione tecnologica.
Il 60% delle imprese ha almeno un livello base di intensità digitale, ci posizioniamo 4 punti percentuali al di sopra della media EU (56%).
Ma questo cosa significa? Come si misura l’intensità digitale?
Stiamo parlando di un indicatore sintetico che misura l’utilizzo da parte delle imprese di 12 diverse tecnologie digitali. Qualche esempio: la presenza di addetti specialisti in ICT in impresa, analisi di big data, utilizzo di robot e stampanti digitali. Il valore dell’indice varia da 1 a 12, l’impresa guadagna un punto per ciascuna area di interesse ed individua quattro intensità digitali in funzione del numero di attività svolte dall’impresa: fino a 3 attività (livello molto basso), da 4 a 6 (livello basso), da 7 a 9 (livello alto), da 10 a 12 (livello molto alto).
Quindi, in base a questo indicatore possiamo desumere che il 60% (che occupa il 78% degli addetti) delle nostre imprese ha un livello base di intensità digitale (almeno 4 di questi indicatori, soprattutto per le piccole e medie imprese). La quota invece delle grandi raggiunge il suo massimo intorno alle otto attività, per poi registrare una diminuzione. Sintomo che la dimensione dell’azienda conta nell’adozione di nuove tecnologie.
Siamo invece ancora ben lontani dal diventare imprese ad alta intensità tecnologica: solo 6 imprese su 100 utilizzano sistemi di intelligenza artificiale.
Anche la vendita online sembra essere ancora ben lontana dall’essere ampiamente diffusa, nel 2020 sono infatti il 18% le imprese con almeno 10 addetti che hanno effettuato vendite online. Nonostante la pandemia, e la spinta quindi dei consumatori ad acquistare di più online, siamo ancora al di sotto della media UE (23%). Miglioreremo entro la fine dell’anno?
Come sempre questa carrellata di dati ci è utile sia per conoscere lo stato delle nostre imprese circa l’aspetto della digitalizzazione, che ci sta particolarmente a cuore, ma soprattutto per capire come leggere il dato. Ad esempio ci basta sapere che il 60% delle imprese vanta almeno un’intensità digitale di base? Forse no, se non sappiamo cosa significa, come è misurata e quale è la distanza invece per raggiungere un più alto livello (cioè quanto ci manca per salire un po’ più su!).
Continuiamo il nostro viaggio nelle abitudini degli italiani, questa volta ci occupiamo di cultura e tempo libero.
Quale è stato l’uso del tempo libero degli italiani nel 2020?
Lo capiremo leggendo i dati forniti dall’ISTAT nell’importante pubblicazione annuale “Annuario Statistico Italiano 2021“. Si tratta di una pubblicazione vasta, composta da 24 capitoli, che mira ad offrire una sintesi conoscitiva e un ritratto complessivo della nostra società.
Ogni capitolo è dedicato ad un differente aspetto del nostro Paese. Tutti i temi sono comunque trattati dalla statistica ufficiale, attraverso tabelle e grafici.
Vediamo se il ritratto dell’Italia nel 2020 ci fornisce anche alcuni interessanti spunti di riflessione sulla fruizione della cultura durante la pandemia di Covid-19.
Complici il lockdown nazionale cominciato a marzo e le restrizioni nei mesi autunnali del 2020, i musei hanno registrato solo 13 milioni di visitatori. Si tratta di un numero molto basso, soprattutto se comparato ai 45 milioni di visitatori registrati nel 2019, un calo del 75%.
Lo studio considera tre diverse categorie di siti statali: musei, monumenti e aree archeologiche statali, archivi di stato e biblioteche.
Guardando alle macro-regioni, il Centro Italia ha registrato il più elevato numero di visitatori, in termini assoluti per tutte le tipologie di luoghi analizzati. Musei e archivi statali sono stati i più visitati in centro Italia anche considerando il numero medio di visitatori per sito. Complici Roma e Firenze, due importanti poli di attrazione per ciò che riguarda siti archeologici e complessi museali. La Toscana inoltre ha il più alto numero di archivi statali sul suo territorio, dunque il numero di visitatori è indubbiamente influenzato dalla maggiore disponibilità di siti.
Per quel che riguarda invece le biblioteche statali, il Mezzogiorno ha registrato il maggior numero medio di visite considerando i soli 8 istituti statali presenti sul suo territorio.
Le biblioteche pubbliche e private sul territorio italiano sono 11.934. La distribuzione territoriale è a favore della Lombardia, con 1.892 spazi sul suo territorio, mentre nel Mezzogiorno ne sono presenti 3.332.
Il cinema è la forma di intrattenimento maggiormente gradita dagli italiani. Oltre il 45% infatti è andato al cinema almeno una volta nel 2020 (in calo rispetto al 2019 (48,5%).
Il cinema interessa soprattutto i giovani: quasi il 78% dei ragazzi con età tra i 18 e 19 anni si è recato al cinema almeno una volta nel 2020 e il 67% dei bambini tra i 6 e 10 anni.
Le ragazze sembrano frequentare maggiormente il cinema rispetto ai loro coetanei maschi (fascia di età fino ai 24 anni), registrando oltre l’80% rispetto al 72% dei ragazzi.
I residenti del Centro e del Nord Italia frequentano maggiormente il cinema, rispetto agli abitanti del Mezzogiorno (47% contro il 42%), inoltre la fruizione del cinema come luogo di intrattenimento è più diffusa in comuni di maggiore dimensione, quindi dove presumibilmente l’offerta è più ampia.
Come prevedibile la pandemia e le misure restrittive intraprese per limitare il contagio, hanno fortemente limitato gli italiani nell’accesso ad eventi culturali.
Oltre il 23% (+ 3% rispetto al 2019) degli italiani con età superiore ai 6 anni non ha usufruito di alcun evento culturale per tutto l’anno.
In particolare, dai 55 anni l’accesso ai servizi culturali eguaglia la media nazionale, per poi cominciare la discesa progressiva fino al raggiungimento dei 75 anni. Fascia di età che vede il picco minimo.
Guardando al genere invece, le donne accedono meno ai servizi culturali: il 25,3% contro il il 20,7% degli uomini dichiara di non partecipare ad eventi culturali.
Anche la variabile territoriale sembra influire sulle scelte di consumo di eventi culturali: il tasso di inattività è piuttosto elevato nel Mezzogiorno (32,8%) rispetto al 16,4% (la metà) degli inattivi che risiedono nella fascia territoriale del Nord-est.
Inoltre usufruiscono meno dei servizi culturali coloro che risiedono in comuni con meno di 2 mila abitanti (27,8%), la minore offerta di servizi dunque sembra determinare anche una minore fruizione degli stessi.
Infine, oltre il 70% degli italiani non frequenta musei, l’82% non ha mai frequentato il teatro nell’ultimo anno e il 53% non è mai andato al cinema e poco meno del 60% degli italiani non legge nemmeno un libro l’anno.
In questo viaggio abbiamo scoperto quali sono gli eventi culturali maggiormente graditi dagli italiani e quali invece sembrano piacere meno!
I dati, dunque, ci hanno aiutato a scoprire le abitudini di consumo e le modalità di fruizione del tempo libero e dei servizi culturali degli italiani. Magari il report può fornirci degli spunti anche per il nostro tempo libero, perché no?
Tornati dalle vacanze di Natale e pronti a tuffarci di nuovo nel mondo dei dati, anzi più precisamente oggi ci occuperemo dell’importanza degli open data.
Noi siamo prontissimi: abbiamo utilizzato questo periodo di pausa per riposarci un po’ e ricaricare le batterie.
Cominciamo il 2022 con una analisi sulla Open Data Maturity dell’Italia e ne faremo un confronto con il resto dell’Unione Europea. Utilizzeremo a questo scopo il rapporto curato da data.europa.eu che si occupa di open data guardando a molteplici aspetti e utilizzando diverse metriche.
Le domande a cui risponde il rapporto si concentrano su 4 aspetti cruciali degli open data:
Il rapporto attraverso l’uso di metriche e indicatori sintetici ci restituisce il quadro generale di ciascun paese, evidenziando le migliori pratiche attuate in modo da sensibilizzare anche altri paesi al miglioramento continuo. L’obiettivo cardine è quello di promuovere la cultura dei dati aperti.
Per prima cosa dobbiamo capire come “funziona” il report. Ossia come valuta la performance, che output fornisce.
Ogni macro-area (le 4 che abbiamo elencato poco sopra) è composta da ulteriori indicatori (metriche). A ciascuna di esse viene attribuito un punteggio massimo. La somma dei punteggi ci riferisce la performance di ogni paese, la comparazione tra questi punteggi ci aiuta a costruire la classifica finale.
Il punteggio massimo, considerando la somma dunque di ogni metrica delle 4 aree, è pari a 2600.
Qualche paese raggiunge questa vetta?
No nessuno, ma la Francia ci va molto vicina totalizzando il 98% del punteggio totale.
Tornando invece all’Italia, la classifica generale ci vede al quarto posto (considerando come singola posizione tutti gli ex aequo) con il 92% del punteggio totale. Ad occupare la quarta posizione siamo in compagnia di Slovenia, Austria e Paesi Bassi.
Sembra proprio un ottimo posizionamento. Ma siete curiosi di scoprire come se la cava il nostro Paese rispetto a ciascun indicatore?
Il primo indicatore che si riferisce allo sviluppo e disegno di politiche pubbliche raggiungiamo quasi il massimo punteggio possibile. Un totale di 640 su 650 punti disponibili.
Andiamo ottimamente per quel che riguarda lo sviluppo di un quadro politico adeguato e nell’implementazione dello stesso, perdiamo invece 10 punti totali per quel che riguarda la governance degli open data.
Sull’impatto degli open data abbiamo il punteggio pieno: abbiamo una consapevolezza strategica sull’utilizzo dei dati ed un impatto chiaro e definito sugli aspetti politico, economico, sociale ed ambientale.
Zoppichiamo invece di più sulla qualità del dato e l’accesso ai portali. Su queste due aree perdiamo maggior terreno rispetto alle possibilità totali.
Sul primo aspetto, dobbiamo migliorare la attualizzazione dei dati e la loro completezza. Ad esempio, un cambio dei dati alla fonte non si sincronizza immediatamente con i nostri portali nazionali e non sempre sono disponibili dati attuali e serie storiche complete.
Guardando invece ai portali, possiamo migliorarne la fruibilità per gli utenti e facilitare la comunicazione tra coloro che pubblicano i dati e gli utilizzatori. Creare dunque delle vere e proprie community di utilizzo dei dati.
Il rapporto evidenzia gli aspetti cruciali circa gli open data e ci fornisce una panoramica generale sullo stato dell’arte per ciascun paese.
Guardare a queste metriche può essere molto utile, perché ci da un’idea delle aree in cui potremmo implementare dei miglioramenti.
Questo è cruciale in un modo sempre più dipendente dai dati. Siamo a buon punto, abbiamo un buono score ed in ogni area ci posizioniamo al di sopra della media EU (27 paesi). Ma grazie al report possiamo scovare dove migliorare e prendere ad esempio le buone pratiche di Paesi che si posizionano meglio di noi.
I dati sono sempre utili e la loro analisi critica può aiutarci ad indirizzare alcune politiche pubbliche, e questo è il nostro messaggio di buon inizio anno!